L'”alboreá” è un rito e solo di recente è uscito dalla sua sfera privata ed è diventato accessibile al grande pubblico.

Solo i gitani più antichi, quasi cent'anni, autentici saggi o sommi sacerdoti, furono capaci di interpretare questa canzone carica di solennità e perfino di religiosità gitana. E il fatto è che l'alboreá, che viene eseguita in compás soleá liviana, è stato riservato per un momento ricco di emozioni nell'esistenza della comunità gitana: la determinazione della verginità della moglie alla vigilia del suo matrimonio. Come conseguenza della sua stessa natura, non ci sono grandi interpreti professionisti dell'alboreá. I gitani rimangono i suoi unici artefici.

Etimologicamente Alboreá deriva da albor, "luce dell'alba", e questo dal latino albor, -oris.

Ha un ritmo soleá e il suo metro letterario è costruito su strofe di quattro versi e un ritornello di misura disuguale: il primo di sette, il secondo di sei, il terzo di nove e il quarto di quattro.

È una canto nuziale e come tale il suo tema ruota attorno a questo evento tanto atteso e felice di altri tempi, e che ancora oggi è tradizionalmente mantenuto tra le famiglie di maggior credo religioso. I suoi testi ci avvertono spesso dell'importanza della verginità della sposa, attribuendo questo rito esclusivamente alla cultura gitana. Tuttavia, è noto il fatto della deflorazione subita dalla regina Isabella la Cattolica, a prova della sua purezza, prima di sposare Fernando, e come lei molte donne dell'epoca.